ALESSANDRA LAZZARIS
INTERIOR DESIGNER VISUAL ARTIST
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Mirta Carroli- Alessandra Lazzaris- Ketti Tagliatti
Tre donne intorno al cor mi son venute…
Testo in catalogo
Di Giorgio Bonomi
Galleria Plurima ottobre 2004
Dico subito che la mostra, il cui titolo è il primo verso di una famosa poesia di Dante Alighieri, non ha alcun riferimento ai contenuti teologici della canzone dantesca ma allude ad un rapporto del curatore con le tre artiste presentate, fondato sulla stima, sul riconoscimento ed anche sull’affetto, dovuto ad una più che decennale frequentazione e al lavoro in comune.
Mi piace la musicalità del verso che mi è venuto in mente pensando ad una mostra di queste tre artiste, così spontaneamente come quando certi paesaggi, certe atmosfere ci fanno recitare silenziosi qualche verso famoso, ritornatoci alla memoria dalla lontana infanzia (“ermo colle”, “l’albero a cui tendevi…”, “d’in su la vetta…”, ecc.).
Conosco bene, già dagli esordi, il lavoro di Alessandra, Ketty e Mirta, l’ho seguito, l’ho esposto, ne ho scritto. Ora un gallerista, anch’esso amico, anch’esso personaggio “dantesco” perché, nel suo rigore, sembra avere il mondo “in gran dispitto”, mi offre la possibilità di esporle insieme.
Volendo, si possono trovare dei punti di contatto, degli intrecci tra i tre lavori, ma non è questo l’importante perché l’efficacia dell’accostamento non sta nelle similitudini bensì proprio nella collocazione parallela delle differenze. Tecniche differenti, contenuti diversi, eppure capaci di “intonarsi” come un brano musicale o, se vogliamo più banalmente, un abbigliamento elegante.
Se la pittura di Ketty Tagliatti è poco definibile, derivando infatti da lunghi e complessi procedimenti manuali: la “stampa” di una matrice sulla tela, il colore, il cucito, altrettanto lo è quella di Alessandra Lazzaris in cui forte è l’elemento “caso”, poiché l’ossidazione non è mai completamente controllabile.
Ma la stessa scultura di Mirta Carroli sfugge a definizioni precise: solitamente si distingue la scultura in quella a “togliere” (ad esempio, il marmo) e quella ad “aggiungere” (per esempio, la terracotta), nel nostro caso invece l’opera lascia indistinto il pieno e il vuoto, cioè dove è intervenuta la fiamma a togliere e dove è intervenuta la saldatrice ad unire. Pur nella sua forza – a volte anche durezza – la scultura di Carroli appare come “ricamata”, se al termine togliamo ogni smelenso riferimento all’attività delle signorine di buona famiglia. È un “ricamo” che rende lirica la massa del ferro, sempre opportunamente, e sapientemente, “patinato”, e che permette composizioni plurali di luci e di ombre, quasi un libero intrecciarsi di trama ed ordito, di nettezza e sfrangiatura.
In Ketty Tagliatti il filo è reale, materiale, è il riscatto della mano rispetto al troppo “concettualismo” dell’arte, non per rivendicare una presunta perdita di artigianalità bensì per ricordare, sommessamente e simbolicamente, che l’arte può essere anche, ma non è, poesia; può essere anche, ma non è, filosofia; e la differenza è data proprio dalla origine e dal fondamento della sua operatività, cioè l’intervento manuale. Il quadro si presenta sempre con un colore prevalente – per lo più terroso – a indicare che l’artista, in modo libero ed assai mediato, ha appreso la lezione del monocromo la cui forza sta nel rivendicare l’efficacia anche di un solo colore, senza bisogno di ricorrere alle innumerevoli possibilità della cromia.
Tagliatti, iconograficamente, è usa ad un’immagine che per anni viene ripetuta – ieri la “poltrona”, oggi la “rosa” – sempre con variazioni tali che la “ripetizione differente”, di derridiana memoria, non risulta, come in altri artisti che “fanno sempre lo stesso quadro”, ossessiva bensì lirica e pacata, anche se non mancano dei momenti di “durezza”, come in un lavoro recentissimo in cui dalla tela fuoriescono non già gli aspetti più lievi della rosa, il profumo e il colore, ma proprio quelli più ostici, le spine.
Per Carroli, invece, la ricerca è più nomade, spaziando dalla memoria inconscia, il mito, a quella più concreta e antropologica, la cultura contadina, per cui può muoversi, nell’articolare le sue sculture, dal totalmente “costruito” al “riuso” di oggetti trovati e rielaborati esteticamente in modo tale che il nuovo significato appare in tutto il suo valore, senza però perdere il suo ricordo ancestrale di ciò che fu.
Anche Lazzaris, la più giovane delle “tre donne”, usa ripetitivamente un’icona: lo struzzo. La figura non è mai completa e, se dapprima apparivano corpo, collo e gambe con voluti tagli ora in basso ora in alto, recentemente, con un “raffreddamento” iconografico, appaiono “parti” meno “riconoscibili”, fino ad arrivare ad una sorta di “geometrizzazione” della composizione, ove la linea, che può essere retta o curva, si impone come definizione degli spazi. Il supporto è la lamiera, cioè il ferro che, al di là delle apparenze, ha una sua vita interna come dimostra il lavoro di Alessandra, giacché l’ossidazione dà sì “corpo” alla “pittura” ma dà anche organicità là dove meno la si aspettava.
Qui si può cogliere un elemento che per certi aspetti appartiene anche alle altre due artiste, ma nel lavoro di Lazzaris è più marcato: il silenzio. Si è soliti, ed è giusto, esaminare in un’opera la luce e l’ombra, meno il tono “sonoro” della stessa; ebbene, gli “struzzi” corrono (o sono fermi? o passeggiano?) in un’atmosfera di assoluto silenzio, segno che questa arte non grida nulla, ma ci invita in spazi altri, appunto quelli del silenzio, che sono poi quelli che più appartengono, o dovrebbero appartenere, ad un’umanità più consapevole.
Giorgio Bonomi
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