ALESSANDRA LAZZARIS

INTERIOR DESIGNER  VISUAL ARTIST

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PRESTESTI FORMALI

Note sul lavoro di Alessandra Lazzaris di Angela Madesani

2005

 

Ogni volta che mi trovo di fronte a un artista che lavora su uno stesso soggetto in modo ossessivo, così Alessandra Lazzaris, mi torna in mente un episodio che riguarda il rapporto di amicizia e collezionismo fra Giorgio Morandi e il musicologo Luigi Magnani. Morandi pittore di oggetti riceve nel corso degli anni quaranta  dall’allora giovane Magnani alcuni strumenti musicali antichi e di pregio-un antico liuto veneziano, due flauti indiani e altri strumenti  - perché li ritragga. Dopo mesi di attesa finalmente Morandi consegna al suo collezionista l’esito del lavoro: un dipinto in cui i preziosi strumenti si sono, come per magia, trasformati in una chitarrina, una trombetta, un mandolino2. Il mandolino dimenticato da un cugino a casa Morandi e una chitarrina e una trombetta acquistate al mercato della Montagnola di Bologna.

Questo per cogliere il senso di una procedura, di un metodo di osservazione, così vicina, tra l’altro, alla lettura che il filosofo fenomenologo Maurice Merleau Ponty offre delle varie versioni della Montagna Saint Victoire di Paul Cézanne. L’oggetto è pretesto di ricerca: solo questo. Nessun intento naturalistico, documentario. Mi pare che questo episodio sia quanto mai chiarificatore delle modalità astratte del procedere del maestro bolognese. L’importanza dell’oggetto ritratto è minima.

Della ricerca di Alessandra Lazzaris mi piace dare una lettura simile a questa. Lei stessa scrive: «Il soggetto è per me costante e ripetuto in modo ossessivo, come fosse un pretesto per dimostrare che spesso l’ossessione presuppone la negazione, l’annullamento, l’azzeramento.

Soggetto per negare il soggetto, attraverso la ripetizione e la riformulazione di una figura che apparentemente ha sempre la stessa identità. Negare il soggetto ma non “formalmente” o “stilisticamente”. Negarlo attraverso il confronto tra la sua forma, a volte, paradossalmente, sempre più definita e la materia che lo compone. Rapporto, quello tra forma e materia, in cui la materia acquista sempre più forza, nonostante il soggetto sia sempre più analitico e forse sempre più “presente”»3.

Tensione a una inutile semplificazione, a un tentativo di lettura che non riesce a cogliere il senso profondo di una ricerca, che offre numerosi spunti interessanti: riassumere il suo lavoro nella figura, nel ritratto dello struzzo sarebbe non solo limitativo, ma anche fuorviante. In realtà, invece, solo la scelta di quel soggetto potrebbe essere illuminante per cogliere il senso del suo agire.

Alessandra Lazzaris ha conosciuto il soggetto casualmente. Vicino a casa sua c’è un allevamento di struzzi da cui rimane incuriosita, catturata. Ne è affascinata perché ne coglie immediata la contraddizione: eleganza e goffaggine, mansuetudine e ferocia, memoria e oblio. Intelligente o stupido? Fortemente legato all’ambiente in cui vive. Una creatura duale, la cui natura, per certi versi, richiama quella dell’animo umano.

Da qui nasce l’ossessione, che va ben oltre il soggetto trattato, in cui è intrinseca la negazione stessa, in aperta contraddizione tra le diverse parti dell’essere.

Del resto i suoi lavori per la realizzazione dei quali usa diversi materiali: ferro, pelle, piombo, plexiglass non sono mai definitivi, metafora dell’esistenza sin troppo facile da cogliere. I suoi lavori sono precari e si comportano in maniera differente, a seconda delle diverse collocazioni spaziali e temporali.

La forma diviene contenitore, confine forzato, in cui è forte il rapporto con la materia, con i diversi linguaggi: «La materia annulla il soggetto, fa sì che l’attenzione si sposti sulle sue caratteristiche intrinseche. Anche se il soggetto è presente “formalmente”. La materia si può riempire di soggetti. Si può credere nel soggetto ma è sempre un’illusione» 4.

Nei suoi lavori è esaltata l’ambiguità dei materiali: i ricami su ferro sottolineano l’aperta contraddizione. Il ricamo, pratica femminile per eccellenza, è su ferro, un materiale duro, apparentemente impenetrabile. Al posto dell’ago utilizza le pinze. Il filo è metallico. L’unidirezionalità è bandita. Vi sono sfaccettature da cogliere anche nei concetti apparentemente più semplici.

La ruggine di fondo è traccia del passare del tempo, memoria della materia, che non si blocca. Continua nel suo cammino. Un cammino, un percorso che può essere rallentato, ma non fermato. In tal senso l’utilizzo del plexiglass, attraverso cui ci si illude di fermare. Diviene contenitore solo apparente, atto alla preservazione, che poi si fa tutt’uno con il contenuto.

Ma così è anche per gli altri materiali con cui è sempre una sorta di viaggio personale, autobiografico e non solo, più ampio, che guarda al circostante, alla natura, ai suoi ritmi, ai suoi sbalzi, sempre più violentata dalle mani dell’uomo. Il piombo è morbido, si piega in un inesorabile percorso formale, in cui è la testimonianza di chi lo lavoro. La pelle è malleabile, con una sola carezza muta le sue sembianze.

Nulla è definitivo, è la tragica e incontrovertibile illusorietà delle cose. Ma forse è proprio questo il bello del gioco.

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