ALESSANDRA LAZZARIS

INTERIOR DESIGNER  VISUAL ARTIST

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Prelievi.

Alessandra Lazzaris e Claudia Steiner.

Di Sabrina Zannier

2008

 

Il vocabolo ‘prelievo’ rimanda all’ambito medico-scientifico e si riferisce all’atto di prelevare da un corpo umano una piccola quantità di tessuto o prodotto organico per esaminarlo. E’ lo stesso atto che accomuna le ricerche artistiche di Alessandra Lazzaris e Claudia Steiner, pur così diverse tra loro. L’oggetto della loro attenzione non è però il corpo dell’uomo bensì la natura, considerata come entità meritevole di rispetto e amore, tanto da essere per l’appunto esaminata, analizzata, studiata, a partire da una specifica azione, identificata  in un vero e proprio prelievo. Questa acuta attenzione nei confronti dell’orizzonte naturale non si radica, nelle due artiste, in ideologie ecologiche o in riflessioni di valenza socio-politica, come spesso accade. E’ piuttosto animata da una forma di rispetto e dedizione che, come quando è mossa verso un individuo, genera curiosità e desiderio - di conoscenza e adesione - tese al dialogo, alla valorizzazione e, perché no, alla sfida.

E’ questo profondo sentimento nei confronti della natura, dal quale nasce la volontà e la necessità di compierne dei ‘prelievi’, che accomuna il paradigma di partenza della poetica di Lazzaris e Steiner. Il che cosa e il come prelevano, l’operatività processuale e il punto d’arrivo, ossia la forma con la quale si presenta l’opera, identificano invece la forbice della differenza tra le due artiste.

Alessandra Lazzaris fissa la propria attenzione sulla materia e sulle sue intrinseche proprietà, interrogandosi sulle processualità chimiche, quindi anche su quell’aspetto di valenza magico-alchemica che da sempre appartiene alla natura e sul quale la cultura fonda interrogativi e immaginazioni. La sua è una ricerca in affondo, azionata dal prelievo di una specifica materia – la ruggine – che considera come una forma di pittura già presente in natura. Una “pittura”  che merita rispetto, che va lasciata agire, ma attraverso il calibro dettato dal pensiero e dalla mano dell’artista. Dal 2002 Alessandra ha “dipinto con la ruggine”, lasciando quindi che il processo chimico dell’ossidazione  compisse il proprio corso sulle lamiere di ferro, ma calibrandone la consunzione, la corrosione, il principio del ‘levare’ con puntualità progettuale, tanto da generare un formalismo ricorrente, individuabile, in quei lavori, nella figura dello struzzo. Della natura non era però certo questa figura ad interessarla, da considerarsi come un mero pretesto per sondare la materia e per affrontare la sfida di utilizzarla e piegarla alla propria ricerca, tutta interna all’universo pittorico. L’azione successiva, tra il 2005 e il 2006, è stata quella di raffreddare l’immagine calda e terragna, così ottenuta, con lastre di plexiglass, che sfuocavano l’effetto corrosivo e la porosità della superficie; per poi passare all’utilizzo delle resine, che nell’impatto morbido hanno riacceso i riflettori sul calore e sul sapore dell’organicità, evocando nell’osservatore il desiderio del tatto come accadeva innanzi alle lastre di ruggine.

Dopo aver sondato, studiato e sperimentato la “proprietà pittorica” dell’ossidazione, e dopo averla alterata con l’applicazione di plexiglass e resine, nel 2007 l’artista ha raccolto nell’intrinsecità di un altro materiale – l’acciaio - la sfida che questo stesso pone alla ruggine. Passando dall’utilizzo della lamiera di ferro alle lastre d’acciaio inox Lazzaris ha introdotto nella propria ricerca un ulteriore passaggio: dal prelievo di un materiale naturale al prelievo di un materiale industriale, che si oppone al potere della natura nella sua impossibilità di ossidarsi. Si è trattato, però, di un passaggio breve, che nella sfida ha subito mutato il proprio segno ritornando alla natura e arricchendo il lavoro pittorico con un altro mutamento ancora.

Mentre prima l’immagine nasceva, attraverso la corrosione dell’acido, per sottrazione, ora Alessandra opera sotto il segno dell’addizione. Innanzi all’acciaio inox, che non si corrode, l’artista non ha alcuna intenzione di abbandonare quella pittura presente in natura, individuata nella ruggine, che quindi trasforma, come un’antica alchimista, in polvere mescolata a pigmenti, per creare l’immagine sopra la superficie d’acciaio. Acciaio a specchio, in parte ricoperto con la polvere di ruggine, che nega la proprietà specchiante, e in parte lasciato tale, a mettere in scena un vuoto pittorico che si riempie con le immagini di passaggio, che riflette l’altro da sé.

Ma non sta qui il senso della ricerca. Lazzaris non usa superfici a specchio per riempirle con ciò che accade nello spazio circostante, se non per sottolineare, anche in tal caso, la costante relazione tra il “mettere” e il “levare”, come quando, del resto, in alcuni lavori su lamiera forata, ha rafforzato il profilo corporeo dell’immagine con cuciture in filo di ferro.  Attraversare quelle lamiere con il filo significa ancora ribadire la duplice gestualità del mettere e togliere, che porta con sé lo stesso dualismo sul fronte concettuale. Un dualismo fatto anche di sottili passaggi, materici e cromatici, come accade negli ultimi lavori, dove lo smalto trasparente, che riabilita l’effetto delle precedenti resine, mescolato a polvere e pigmento, crea un passaggio intermedio tra l’acciaio e la forma pittorica, creando un morbido alone sul solco deciso e marcato degli altri lavori.

Anche Claudia Steiner opera in nome della natura e per amore della natura. Anche lei fa dei prelievi, ma con un atteggiamento diverso rispetto a quello di Lazzaris. Invece dell’affondo verticale sull’intrinsecità di uno specifico materiale, propone uno sguardo dilatato orizzontalmente, una sorta di abbraccio sull’universo naturale. I suoi prelievi, quindi, non si limitano alla materia ma si estendono anche a veri e propri ready-made, a oggetti “già fatti”, per lo più dalla natura, ma anche dall’uomo, nel caso, per esempio, delle pagine del giornale.

I materiali che utilizza — dal vetro alla ceramica, dal piombo al rame, dalla vetroresina alla carta —, così come i ready-made, che vanno dalle piume al ramo di rosa ai sassi, vengono plasmati, tagliati e composti nell’opera come lettere di un ricco abbecedario visivo e simbolico, dove ogni materia potenzia le sue proprietà, tanto fisiche quanto funzionali. La durezza del metallo si contrappone alla morbidezza sensoriale della vetroresina, così come la trasparenza del vetro fa da contraltare alla saturazione materica della ceramica. Il vetro diventa un modo per delimitare uno spazio, entro il confine della lastra o del frammento utilizzato, ma anche per sconfinarlo oltre quel limite e aprire lo sguardo su un altro spazio ancora; mentre la carta di giornale, già di per sé satura di senso e di segni, si eleva a superficie per ulteriori immagini, disegnate dall’artista come accade nell’opera intitolata Mano, dove il sottile equilibrismo di ogni frammento si focalizza proprio attorno al disegno di una mano che sembra aprirsi e chiudersi, forse proprio ammiccando alla simbologia del prelievo.

Facendo leva sull’intrinsecità di ogni materia usata, Claudia conduce la propria ricerca su uno specifico bipolarismo: la relazione fra luce e ombra, che ammicca a quel mettere e levare di Lazzaris. Ma se è vero che, concettualmente, la luce contiene il principio della presenza e l’ombra quello dell’assenza, è anche vero che il gioco delle ombre nel lavoro di Steiner rafforza il senso stesso della presenza. Basti osservare le ombre delle Spine di ceramica installate a muro, che ridisegnano sulla parete la loro immagine puntuta entro una progettualità installativa; o, ancora, basti guardare la duplicazione, nell’ombra proiettata a muro, dell’immagine del Ragno incisa sul vetro, che suggerisce l’inconsistenza, la labilità ma al contempo la certosina laboriosità della tessitura del proprio luogo abitativo da parte di questo piccolo animale.

Luce e ombra, pieno e vuoto, mettere e levare sembrano tracciare i termini attraverso i quali l’artista osserva, traduce e ri-crea l’universo naturale, anche con l’inserimento di immagini fotografiche, anche con l’appello al segno, inciso su lastre di vetroresina o su vetro o condotto su carta, sempre per un affondo in natura, come fa in Tartaruga disegnando l’animale nella sua fedeltà fisionomica.

La pluralità di materiali e oggetti, unitamente alla compresenza di più linguaggi, si sviluppano sostanzialmente su due vie: quella del prelievo fisico, dove Steiner recupera materiali e oggetti, come avviene per esempio in Tartaruga e in Ragno, e quella del prelievo concettuale, come nel caso di Spine, dove ad essere prelevato è il formalismo della spina, ri-creato in ceramica. In ogni caso è poi la valenza compositiva, dettata dal disegno e dall’incisione entro un formalismo oggettuale, o dalla progettazione spaziale in un contesto installativo, a detenere il sapore di quell’iniziale idea di “prelievo” mossa dal rispetto e dall’amore per la natura, intesa sia da Steiner che da Lazzaris come un “corpo” da conoscere e rispettare.

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