ALESSANDRA LAZZARIS
INTERIOR DESIGNER VISUAL ARTIST
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Alessandra Lazzaris, la materia instabile del vuoto
Di Claudio Cerritelli
2009
Affermando che la materia annulla il soggetto Alessandra Lazzaris è sempre più convinta che il referente della sua pittura è la materia medesima, congiunzione degli opposti da cui nascono possibili relazioni spaziali nel divenire controverso della luce, naturale e artificiale, dipinta e metallica, tangibile e illusoria come riflesso senza corpo.
L’indagine intorno alle valenze primarie della materia è questione ampiamente affrontata nelle ricerche polimateriche del ‘900 e, tuttavia, è ancora aperta allo stupore dell’invenzione pittorica, alle seduzioni tattili del colore come evento basato sul piacere emozionale del fare.
Immaginare una pittura-oggetto senza soggetto è dunque l’esperienza che Lazzaris sta verificando da diversi anni attraverso le forme più idonee ad una visione come processo provvisorio di stati fisici e mentali.
Bisogna cogliere il vuoto dell’immagine, questa è l’aspirazione dominante dell’artista, fissare la forma instabile in cui la materia riflette su se stessa e sta sospesa sulle mutevoli consistenze della propria epidermide. Senza rimandare ad altro che ai suoi passaggi visibili e invisibili, alla memoria delle immagini già viste e di quelle che sono sempre sul punto di apparire, condizione essenziale per garantire il pensiero del mutamento. Si passa, infatti, dalla corrosione delle forme al loro rigenerarsi, dalla contaminazione alla purificazione, dalla pienezza della materia al suo dissolversi.
Per questo Lazzaris ha sperimentato diversi umori materici, ha inventato forme di piombo e cuciture con filo di ferro, ha tessuto filo zincato su lamiera forata, ha usato smalto e plexiglass opalino, quindi ha fissato i processi di ossidazione del ferro, ha dipinto con gli acidi mostrando la crudezza del pigmento e la luce specchiata.
Nel corso di questi procedimenti sono emerse diverse temperature cromatiche necessarie alla messa in forma delle materie, al calore poroso della ruggine si è opposta la fredda trasparenza del plexiglass, alla densa fisicità delle resine ha reagito la fermezza percettiva dell’acciaio inox. Nelle mani di Lazzaris la superficie specchiante ha perso il suo carattere inattaccabile per esaltare in ogni opera l’ambivalenza del visibile, la fermezza e la mutevolezza dell’effetto ottico, senza rinunciare al lieve sommovimento della ruggine mescolata a pigmenti.
Questa polvere si sovrappone ai riflessi d’acciaio secondo modalità mai date per scontate, non v’è sfida tra inconscio e razionalità ma solo infinita ricerca di equilibri possibili, di vuoti che si riempiono e di pieni che si svuotano, pesi e contrappesi, bagliori interiori e riverberi metallici, palpitazione informe del pigmento ed estensione ottica del metallo specchiante.
Queste polarità convergono nell’evidenza tattile dell’opera, nella duplice forza dell’immagine che oscilla dall’aspetto informale della ruggine alla perfetta lucidezza dell’acciaio, in una proporzione che negli ultimi anni ha visto sempre più prevalere il pigmento materico rispetto alla superficie riflettente.
Più l’acciaio è ricoperto di materia, maggiore è il magnetismo di cui si caricano quelli che potremmo chiamare buchi lucenti di forma irregolare che rovesciano continuamente il rapporto superficie-profondità, sviluppando quella che Sabina Zannier ha definito “costante relazione tra il ‘mettere’ e il ‘levare’”.
Nella ruggine Lazzaris cerca una vita primordiale della materia mentre nei piccoli varchi lo sguardo incontra vibrazioni cromatiche che vengono dallo sfondo esterno, dalle immagini della natura per esempio, con alberi prati e cieli che entrano a far parte della percezione totale dell’opera.
A questo punto, l’uso della forma specchiata non serve a duplicare l’immagine in quanto tale ma ad usarla come pretesto sfuggente per costituire una nuova e unica realtà. Realtà della pittura le cui mutazioni atmosferiche sono registrate dal fluire della luce, in modo che l’identità possibile non è altro che la somma delle infinite modificazioni che l’acciaio produce, alterando - anche se minimamente- la percezione stessa del colore-ruggine.
Se il ciclo di lavoro del 2007-2008 è titolato “immagini che non lasciano traccia” quello messo in atto nel 2009 è più evocativo, “come l’acqua per il ferro”, in quanto allude al contrasto tra fluidità e fissità, leggerezza e peso, trasparenza e opacità, termini antitetici che Lazzaris risolve in congiunzioni che solo l’immaginazione alchemica rende possibile.
La mescolanza di ruggine e pigmento copre anche lo spessore del supporto e sembra avvinghiarsi ai bordi per possedere la superficie davanti e dietro, lasciando intuire che il fluido materico potrebbe continuare oltre il perimetro. A rafforzare il flusso dilagante della materia concorre talvolta una stesura di bianco opaco, come un alone raggelante che si spande in alcuni punti e in altri tace, luce di passaggio tra la polvere di ruggine e lo spazio specchiante.
In altri casi, si aggiunge qualche scheggia incandescente di rosso, fuoco ottico intenso e sensuale che va gradatamente a spegnersi in zone più chiare, fino a diluirsi e annullarsi verso i margini.
Il vagare dell’occhio è guidato da una quantità indescrivibile di microstrutture, minime disgregazioni telluriche, spessori diversi, piccoli grumi, brevi infiltrazioni di luce, il darsi e ritrarsi della pelle pittorica in corrispondenza delle aperture del fondo specchiante.
Accanto a questi microcosmi immaginativi non vanno persi di vista i meccanismi di lettura più sfuggenti, per esempio il riflesso monocromo della parete sui bordi oppure quello dell’ambiente circostante che comporta un’ulteriore variazione cromatica.
Lazzaris tiene sotto controllo queste implicazioni come conseguenze naturali del carattere fluido del corpo-opera, con la coscienza che l’inconfondibile relazione tra acciaio e ruggine comporta la possibilità di assorbire ogni tipo di luce per trasformarla in una diversa emanazione.
E’ infatti inevitabile che l’oggetto pittorico contenga luce propria e sia, al tempo stesso, contenuto in un’atmosfera esterna imprevedibile che aggiunge qualcosa di diverso all’identità già predisposta dall’artista.
Nello spazio asettico di una galleria tutte queste interferenze vengono ridotte al minimo ma non viene meno l’esigenza di collocare la pittura nello spazio e di registrare la sua presenza come campo percettivo in continua modificazione. Tanto più che, quando Lazzaris sceglie di collocare in orizzontale il supporto facendolo sporgere dal muro ad altezza d’uomo, si avverte l’allusione alla scultura, tentazione che già in passato aveva dato risultati interessanti. Soprattutto come capacità di recepire aria, vuoto, sospensione e trasfigurazione del peso plastico-cromatico in luce e leggerezza. Inoltre, questo tipo di soluzione plastica funziona come nucleo irradiante, luogo di raccordo tra sguardi che girano intorno all’oggetto, sopra e sotto, frontali, laterali, intrusivi e penetranti in ogni minimo spiraglio.
Questa tensione plastica è presente anche quando l’artista adotta la misura verticale e bidimensionale, lo slancio dell’immagine sembra seguire l’idea del corpo proteso verso l’alto, la materia abbraccia se stessa con visceralità primordiale fino a identificarsi quasi totalmente con lo spazio dell’opera. E’ questo il punto in cui la pittura non teme di riferirsi di nuovo -come era avvenuto nel passato- ad una sembianza di figura, in quanto il soggetto dell’operazione di Lazzaris rimane sempre il dialogo tra colore e luce, superficie e profondità, peso del vuoto e lucentezza dell’acciaio. Senza dimenticare i bagliori imprevedibili e vitali che possono entrare nel perimetro dell’opera e mostrarsi attraverso la materia che si riflette, realizzando in questo specchiarsi della pittura l’identità del suo annullamento.
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